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Ci vuole metodo

Ci vuole metodo

Come individuare e arrestare un latitante decennale


RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

Per spiegare la strategia che li ha portati ad arrestare Matteo Messina Denaro gli investigatori usano un’immagine: gli abbiamo prosciugato l’acqua che gli ha consentito di restare libero tanto a lungo

di Lara Sirignano e Carmela Giudice


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L’acqua, liquido vitale, sono i fiancheggiatori, uomini d’onore o insospettabili che, occupandosi del quotidiano del padrino di Castelvetrano, trovandogli il rifugio, costruendo il suo bunker segreto, portandogli il denaro che gli ha consentito non solo di andare avanti, ma anche di non rinunciare al lusso che ha sempre amato, l’hanno protetto, coperto, sostenuto.

Sembra un metodo intuitivo, elementare. Non lo è. Anzi, chi come l’ex procuratore aggiunto di Palermo Giuseppe Pignatone questo metodo l’ha sperimentato con successo con un altro ricercato eccellente, il boss corleonese Bernardo Provenzano, è stato spesso accusato di pensare ai ladri di polli, ai pecorai invece di puntare alle vere coperture, alle collusioni istituzionali, alla Spectre, insomma, che tutto sa e tutto muove. Critiche spesso venute proprio da magistrati, che non hanno però condizionato il procuratore di Palermo Maurizio De Lucia e il suo aggiunto, Paolo Guido, che a Messina Denaro dava la caccia da 15 anni  e che a provare a prosciugare l’acqua che nutriva il capomafia trapanese non ha mai smesso. Così, nel tempo, in carcere sono finiti prestanomi che, riciclando i miliardi del boss, hanno fatto fortuna, pesci apparentemente piccoli, sorelle, fratelli, nipoti e cognati di Diabolik, soprannome col quale in Cosa nostra Messina Denaro era chiamato. Una operazione che ha colpito a tappeto. E che, ancora una volta, ha dato i suoi frutti. Perché, se sei un uomo braccato, puoi affidare la tua vita solo a chi ti è fedele. La riprova? Diabolik si nascondeva a Campobello di Mazara, otto chilometri dal suo paese, a casa di un nipote di un vecchio mafioso e si rivolgeva al suo entourage per andare avanti.  

Il metodo, dunque, ha funzionato e sulle tracce dell’ex latitante si è arrivati grazie alle mezze frasi intercettate e sussurrate dai familiari, quell’acqua vitale nella quale per 30 anni ha galleggiato il boss. Parole solo accennate che hanno confermato i sospetti dei pm: Matteo Messina Denaro è un uomo malato. Quindi ha bisogno di cure. Un input essenziale che, attraverso una capillare indagine basata anche sul database del ministero della Salute con informazioni su pazienti compatibili col padrino per età, provenienza e patologie, ha fatto scattare il blitz.  

Matteo Messina Denaro non si è consegnato. Forse era stanco di fuggire, forse era depresso perché sapeva che non gli sarebbe restato molto da vivere, ma dietro alla sua cattura, secondo l’aggiunto Paolo Guido, non c’è nessuna trattativa oscura. “L’unica cosa che non è riuscito ad evitare è stata la malattia. La salute è un fatto democratico”, ha detto. E’ andata proprio così. 

''Obiettivo identificato'', la comunicazione in codice

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Il fantasma

Matteo Messina Denaro, 60 anni, si era reso irreperibile subito dopo la cattura di Totò Riina. Per tre decenni è stato un padrino che gestiva un potere infinito ma viveva come un fantasma, anche se la sua invisibilità non gli ha impedito di diventare padre due volte. Di una figlia si sa tutto: il nome, la madre, le scelte che l'hanno portata a separare la propria vita dall'ombra pesante di un padre che forse non ha mai visto. Ha trascorso l'infanzia e l'adolescenza in casa della nonna, poi con la madre ha cambiato residenza: non è facile convivere con lo stress delle perquisizioni, dei controlli e delle irruzioni della polizia. Dell'altro figlio si sa invece quel poco che è trapelato dalle intercettazioni: si chiama Francesco, come il vecchio patriarca della dinasty, ed è nato tra il 2004 e il 2005 in quel lembo della provincia di Trapani, fra Castelvetrano e Partanna, dove Matteo Messina Denaro ha costruito il suo potere economico e criminale.
Attento a gestire la sua latitanza, e a proteggerla con una schiera di fiancheggiatori, uno dei boss più ricercati del mondo ha lasciato di sé solo l'immagine di un implacabile playboy con i Ray Ban, le camicie griffate e un elegante casual. E dietro questa immagine ormai scolorita una scia di leggende: grande conquistatore di cuori femminili, patito delle Porsche e dei Rolex d'oro, maniaco dei videogiochi, appassionato consumatore di fumetti. Di uno soprattutto: Diabolik, da cui ha preso in prestito il soprannome insieme a quello con il quale lo chiamavano i suoi fedelissimi. Un altro ancora glielo hanno affibbiato i suoi biografi "'U siccu": testa dell'acqua, cioè fonte inesauribile di un fiume sotterraneo. Anche nei soprannomi Matteo Messina Denaro impersonava il doppio volto di un capo capace di coniugare la dimensione tradizionale e familiare della mafia con la sua versione più moderna.
Il padrino di Castelvetrano si è sempre mosso tra ferocia criminale e pragmatismo politico. Per questo è stato considerato l'erede di Bernardo Provenzano ma soprattutto del padre don Ciccio, altro boss della nomenclatura tradizionale morto da latitante nel 1998. 
Quando il vecchio patriarca scomparve, del giovane Matteo si erano perse le tracce già da cinque anni, nel 1993, prima ancora che fosse coinvolto nelle indagini sulle
stragi di quegli anni. E da allora Diabolik era sempre riuscito, a volte con fortunose acrobazie degne dell'imprendibile personaggio del fumetto, a sfuggire ai blitz. Su di lui era stata posta una taglia da un milione e mezzo, ma per fargli attorno terra bruciata gli investigatori hanno stretto in una tenaglia micidiale la rete dei fiancheggiatori. Neanche i suoi familiari sono stati risparmiati: la sorella Patrizia, arrestata e accusata di avere gestito un giro di estorsioni, il fratello Salvatore, i cognati, un nipote. E tanta gente fidata, costituita da prestanome spesso insospettabili, che hanno subito ripetuti sequestri patrimoniali.
Il "fantasma" di Messina Denaro era inseguito da una montagna di mandati di cattura e di condanne all'ergastolo per associazione mafiosa, omicidi, attentati, detenzione e trasporto di esplosivo. Nei più gravi fatti criminali degli ultimi trent'anni, a cominciare dalle stragi del '92 in cui furono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, è stata riconosciuta la sua mano. 
Ma se la fama di uomo spietato gli viene riconosciuta qualche dubbio si è insinuato sulla sua reale capacità di ricostruire, dopo gli arresti di Totò Riina e di Bernardo Provenzano, la struttura unitaria di Cosa nostra intaccata dagli arresti e da un processo di frammentazione. Un boss che ha traghettato Cosa Nostra nel secondo millennio, senza però riuscire ad evitare di fare la stessa fine dei vecchi padrini.

(di Franco Nicastro e Francesco Nuccio)

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Guadagna e Sperone, i quartieri del boss

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I covi

Le case in cui Messina Denaro si nascondeva
Le case in cui Messina Denaro si nascondeva - RIPRODUZIONE RISERVATA

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Corruzione e minacce, così la mafia comandava

 


"Ho lavorato per due anni a Campobello di Mazara e vissuto lì un tempo di formazione ineguagliato e fondamentale. Ho capito la potenza della mafia quando assoggetta e sottomette un territorio. Ho capito la forza delle relazioni che fanno sì che l'energia del potere criminale produca l'esistenza di un sistema altrettanto forte, complice e servo". A raccontarlo all'ANSA è Marina Marino, esperta in urbanistica per la Commissione straordinaria che tra tra il 2012 e il 2014 ha guidato Campobello di Mazara, nei luoghi in cui si nascondeva Matteo Messina Denaro.
Marino è stata chiamata a occuparsi di urbanistica in tante commissioni di Comuni siciliani sciolti per mafia. "Un luogo violento - così lo ricorda l'urbanista - per lo stato di abbandono e incompletezza che sembra caratterizzarlo, vuoto di persone, sede di uno dei campi per migranti irregolari piu' devastato del Paese. Cani randagi e solitudine. Ma anche bar moderni, illuminati e ricchissimi di ogni bontà. Intorno, l'oscurità e il vuoto sociale". Da ottobre 2012, per due anni Marina Marino si è misurata "per conto dello Stato con l'amministrazione locale dell'urbanistica retta da logiche mafiose, accolta, appena fuori dal paese, da una grande scritta con una brillante vernice rossa su una vecchia cabina elettrica che diceva "W Matteo Messina Denaro", tanto per non illuderci che i benvenuti non eravamo noi", ovvero lei e la commissione straordinaria, ricorda l'esperta. "Ci capitò subito - racconta - di occuparci di un complesso turistico di 4.000 posti letto, autorizzato con una concessione edilizia di una paginetta a Carmelo Patti patron della Valtur, poi arrestato per contiguità con Messina Denaro. I lavori mai iniziati, eppure prorogati due volte; l'area in cui avrebbe dovuto sorgere il complesso turistico, a ridosso di quella archeologica di Selinunte, era stata confiscata e affidata a tre amministratori individuati dal Ministero dell'Economia e delle Finanze che si batterono per mantenere in vita quel progetto. Vincemmo noi, con la legge. Il tanto lavoro regionale e comunale per autorizzare un'enormità , non fu più un progetto. E poi i circa 200 nulla osta della Soprintendenza di Trapani al mantenimento di case abusive costruite sulla battigia, con i quali si favoriva il muratore, il contadino, il poliziotto e il funzionario della prefettura, l'avvocato: tutti egualmente uniti dall'unico destino di essere titolari di un edificio costruito in riva al mare, con l'unica possibilità di ricevere il condono edilizio. Che poi era arrivato, senza creare discriminazioni. Così la mafia diventa forte - ragiona Marina Marino - aprendo la porta della riconoscenza e dell'eguaglianza per il favore ricevuto". E poi ancora un villaggio turistico fantasma composto di villette prospicenti il mare tali da consentire l'approdo di motoscafi e la permanenza indisturbata e accompagnata da visite e traffici del boss di Castelvetrano mentre negli edifici destinati ad albergo si offriva ai malcapitati turisti acqua densa di coliformi fecali per la coesistenza nella stessa conduttura delle acque bianche e nere.
"Ci chiedemmo come 3000 posto letto potessero essere occupati senza un sito internet: fu confiscato", racconta l'urbanista. Intanto a Campobello, tra il 2013 e il 2014, a lei e ai commissari straordinari capitavano eventi poco piacevoli: "Al bar, davanti alla tazzina del caffè, si discuteva del 'servizietto' che avrebbero voluto farci: ammazzarci o soltanto farci molto male, così, a voce alta, appositamente per essere ascoltati".
Poi è arrivata a metà del 2014, pochi mesi prima della fine del Commissariamento Straordinario, la pistola lanciata con forza alle spalle dell'urbanista, dentro il cortile dell'ufficio tecnico. "Una scacciacani con matricola abrasa, proiettili in canna e capace di sparare, che si infranse sulla parete di fronte a me con un tonfo dall'eco di un'esplosione. Non ricordo di avere provato incredulità e nemmeno, incoscientemente, paura. Fredda rabbia sì, respiro lento e il pensiero immediato alla liberta' che avrei perso se avessi lasciato spazio alla paura", ricorda Marino, che con altre tecniche, tutte donne, decide di proseguire a lavorare con determinazione. Dal giorno dopo, con l'appoggio convinto della Commissione Straordinaria, firmano decine di provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale delle case sul mare di Tre Fontane. "Sentivamo un diffuso disprezzo feroce e freddo accompagnarci alle spalle, la sensazione per noi sfuggente della presenza di Messina Denaro. Resta in questo momento un bisogno di memoria e il senso dei miei giorni a Campobello di Mazara, comunque ad ostacolare Messina Denaro".
(di Valentina Roncati)

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Il sopravvissuto

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L'emozione dei genitori del maresciallo Salvi

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La sorpresa dello zio di Nadia

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Il boss che amava sparare

I problemi giudiziari di Matteo Messina Denaro cominciano nel 1989, quando figlio dell'allora più celebre padre, don Ciccio, boss di Castelvetrano, incassa la prima denuncia per associazione mafiosa. Già da allora conosciuto in ambienti investigativi, non gode ancora di fama pubblica, ma ha preso in mano il
mandamento su delega del padre-padrino ammalato che lo avvia alla successione.
Enfant prodige del crimine, destinato per legami di sangue ad assumere un ruolo in Cosa nostra, ha sempre amato sparare. A 14 anni sa maneggiare le armi, a 18 commette il primo omicidio. "Con le persone che ho ammazzato io, potrei fare un cimitero", confida a un amico. 
In linea con la strategia stragista dei corleonesi, dei quali, come suo padre, resterà sempre fedele alleato, è coinvolto nelle stragi del '92 in cui persero la vita
i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La Procura di Caltanissetta, dopo aver le indagini sugli attentati, a ottobre del 2020 lo ha fatto condannare all'ergastolo per i due attentati. Secondo gli investigatori sarebbe stato presente al summit voluto da Riina, nell'ottobre del 1991, in cui fu deciso il piano di morte che aveva come obiettivi i due magistrati. I pentiti raccontano, poi, che faceva parte del commando che avrebbe dovuto eliminare Falcone a Roma, tanto da aver preso parte ai pedinamenti e ai sopralluoghi organizzati per l'attentato. Da Palermo, però, arrivò lo stop di Riina. E Falcone venne ucciso qualche mese dopo a Capaci.
Un ruolo importante "Diabolik" lo ha avuto anche nelle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. Imputato e processato è stato condannato all'ergastolo per le bombe nel Continente (quelle fatte esplodere cioè fuori dalla Sicilia). 
La sua latitanza comincia a giugno del 1993. In una lettera inquietante scritta alla fidanzata dell'epoca, Angela, preannuncia l'inizio della vita da Primula Rossa. "Sentirai parlare di me - le scrive facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue - mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità".
Il padrino trapanese nella sua carriera criminale ha collezionato decine di ergastoli. Oltre a quelli per le bombe del Continente, ha avuto il carcere a vita per il sequestro e l'omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito rapito da un commando di Cosa nostra, strangolato e sciolto nell'acido nel 1996 dopo quasi due anni di prigionia. Riconosciuto colpevole di associazione mafiosa a partire dal 1989, l'ultima condanna per mafia è a 30 anni di reclusione in continuazione con le precedenti.
Il tribunale di Marsala per la prima volta gli ha riconosciuto la qualifica di capo nel 2012. E una pioggia di ergastoli il boss li ha avuti anche nei processi Omega e Arca che hanno fatto luce su una serie di omicidi di mafia commessi tra Alcamo, Marsala e Castellammare tra il 1989 e il 1992. 

(di Lara Sirignano)

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I grandi colpi alla mafia

Tommaso Buscetta fermato fermato il 23 ottobre 1983, estradato in Italia l'anno dopo
Tommaso Buscetta fermato fermato il 23 ottobre 1983, estradato in Italia l 'anno dopo - RIPRODUZIONE RISERVATA

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I superlatitanti rimasti

I superlatitanti I superlatitanti rimasti

Chi sono ora i ricercati più pericolosi

Con l'arresto di Matteo Messina Denaro si assottiglia l'elenco dei latitanti di massima pericolosità  facenti parte del "programma speciale di ricerca" del gruppo Interforze. 

Si tratta di Attilio Cubeddu (Anonima sequestri), nato il 2 marzo 1947 ad Arzana (Nuoro) e ricercato dal 1997 per non aver fatto rientro, al termine di un permesso, nella Casa Circondariale di Badu e Carros (Nuoro), dove era ristretto, per sequestro di persona, omicidio e lesioni gravissime. 

Giovanni Motisi (mafia), nato il primo gennaio 1959 a Palermo, ricercato dal 1998 per omicidi, dal 2001 per associazione di tipo mafioso ed altro, dal 2002 per strage ed altro. Deve scontare la pena dell'ergastolo. 

Renato Cinquegranella (camorra), nato il 15 maggio 1949 a Napoli, ricercato dal 2002 per associazione per delinquere di tipo mafioso, concorso in omicidio, detenzione e porto illegale di armi, estorsione ed altro. 

Infine Pasquale Bonavota ('ndrangheta), nato il 10 gennaio 1974 a Vibo Valentia, ricercato dal 2018 per associazione di tipo mafioso e omicidio aggravato in concorso. 

(di Simona Tagliaventi)

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''Senza intercettazioni nessuna indagine di mafia''

''Senza intercettazioni nessuna indagine di mafia''

La 'ndrangheta ora è più forte

L'arresto del boss Matteo Messina Denaro è sicuramente un duro colpo per Cosa nostra, ma, attenzione, ciò non significa che Cosa nostra sia stata sconfitta. Non solo. Bisogna tenere ben presente che allo stato attuale, dati di fatto alla mano, la mafia calabrese, la 'ndrangheta, è ancora più pericolosa della mafia siciliana. A rilevarlo, in una conversazione con l'ANSA, è il professore Enzo Ciconte, ex parlamentare di Pci e Pds e docente di Storia delle mafie italiane al Collegio Santa Caterina dell'Università di Pavia, uno dei massimi esperti in Italia delle dinamiche delle grandi associazioni mafiose.
"L'arresto del boss - spiega - crea sicuramente dei problemi alla mafia perché Matteo Messina Denaro è la mafia, era uno benvoluto nel suo mondo. Era un punto di riferimento perchè rappresentava la mafia storica, la mafia antica, quella più solida. E' chiaro che la sua cattura segna una battuta d'arresto di questo tipo di mafia. Questo però non significa, e non vorrei che su questo ci fosse un'illusione ottica, che avendo catturato Messina Denaro ormai abbiamo sconfitto la mafia. La mafia è ancora viva e soprattutto si muoverà su un terreno molto subdolo che è la penetrazione nell'economia".
Ciconte rileva come, a livello di spessore criminale, la 'ndrangheta calabrese abbia ormai superato abbondantemente la mafia siciliana. E spiega perchè: "La 'ndrangheta è più potente. Lo dicono i fatti, perchè la mafia palermitana, dopo le stragi, i collaboratori di giustizia, le catture di Riina, Provenzano e di tutti quanti i componenti della 'cupola', si è indebolita moltissimo. Loro oggi hanno un problema di leadership. Nella 'ndrangheta questo problema non esiste perché è  forte, diversamente dalla mafia siciliana è presente in tutta Italia, nessuna regione esclusa, ed è presente persino in tutta Europa".

(di Alessandro Sgherri)

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